Ciò che più colpisce un attento lettore di questo
libro è il suo carattere rigorosamente unitario,
che vale fin dall’inizio a, fugare ogni sospetto di
approssimazione compilatoria, differenziandolo
nettamente dalla maggior parte degli scritti che
gli uomini politici sogliono pubblicare di tempo
in tempo, quasi a segnare « a posteriori » le tappe
della loro carriera. Fin dalle prime pagine dell'introduzione,
l'On. Mario Pedini pone infatti
con assoluta chiarezza il tema dell'opera, già efficacemente sintetizzato nel titolo, soffermandosi
sul contrasto tra aspirazioni e realtà, tra il dover
essere e l'essere che - certo presenti in ogni momento
dell'umana vicenda, come un dato universale
della nostra comune condizione - appare a
noi contemporanei particolarmente manifesto nel mondo che ci circonda. Il nostro
mondo è infatti percorso da tensioni che sono nelle cose prima ancora che nella
nostra coscienza e in fondo riflettono l'impatto esercitato sulla nostra mentalità
e sul nostro modo di vivere dall'indubbia accelerazione del processo storico di cui
tutti siamo partecipi. Profondamente inserito nella realtà che muta in relazione
alle sue stesse rilevanti responsabilità di uomo politico e intimamente interessato
a cogliere il senso profondo dell'inquietudine e della protesta serpeggiante nella
nostra società, l'Autore ha concepito questa sua opera come una meditazione sul
nostro tempo, stimolato a scriverla dal desiderio di reperire una risposta valida
agli interrogativi posti, in modo talora violento dalla cosiddetta contestazione,
verso la quale egli si pone con animo sereno e scevro di avversioni pregiudiziali,
attento a coglierne e in qualche misura a farne proprie le ragioni storiche e le motivazioni
morali, quali si riassumono nell'ormai pressoché universale riconoscimento
di una pericolosa divergenza tra la crescente razionalità dei mezzi tecnici
di cui dispongono le società più evolute e la persistente irrazionalità dei fini che
ancora per tanta parte quelle stesse società si prefiggono. La sua preoccupazione
di fondo è quella di indicare ai lettori, e soprattutto ai giovani, la via di una soluzione
positiva di queste contraddizioni, che non passi attraverso i vecchi sentieri
della violenza, bellica o rivoluzionaria, di cui la Storia ha tanto spesso verificato
la sostanziale impraticabilità ed il carattere dispersivo.
Da questo punto di vista, il merito maggiore del libro che presentiamo sta nel
suo impianto francamente autobiografico, quale emerge espressamente dalla sua
introduzione, nella quale Pedini ripercorre a volo d'uccello le tappe della sua carriera
europea, precisando come l'opera sia nata dalla meditazione di un uomo
d'azione intorno alla propria esperienza vissuta. E proprio questo impianto autobiografico,
che qua e là traspare tra le righe come un sottile filo conduttore, a conferire
una reale attendibilità alla risposta da lui suggerita e condensata nel titolo
di queste pagine, secondo cui il nostro tempo è appunto un « Tempo d'Europa ».
Mi sembra quindi che il modo giusto di leggerle stia nel ravvisarvi la replica di
un democratico di matura esperienza ad un interlocutore ideale, che potrebbe essere
un giovane studente, rispetto al quale egli si pone come un padre rispetto al
proprio figlio. Questa esplicita assunzione di responsabilità non può non suscitare
la simpatia di un lettore non prevenuto. L'Autore non si trincera infatti dietro la
pretesa obiettività dello storico, ma si confessa partecipe dei meriti e dei limiti
dell'azione che ha concorso a realizzare, come si conviene ad un politico. Queste
considerazioni devono essere tenute nel debito conto da chi intenda accostarsi a« Tempo d'Europa » per capirlo e valutarlo nella sua giusta chiave, senza adombrarsi
per la presenza di accenti che potrebbero talora apparire apologetici, non
certo in senso personale, ma come espressione della solidarietà storica che lega lo
scrittore agli ideali della sua generazione e della sua parte politica. In altre parole,
non siamo qui di fronte ad un'analisi teorica, ma allo scritto di un militante, da
collocarsi nell'ambito di un saggismo politicamente e moralmente impegnato e
non privo qua e là di risvolti addirittura memorialistici.
L'unità dell'opera è data del resto, oltre che dalla sua articolazione dialogica,
dai suoi stessi limiti di tempo, i quali coincidono, a riprova di quanto si è detto
del suo carattere autobiografico, con quelli dell'esperienza vissuta dall'Autore
quale parlamentare e uomo di governo investito di responsabilità in ordine all'integrazione europea, dapprima nel Parlamento Europeo e poi nell'ambito del
Consiglio dei Ministri della Comunità.
Questa esperienza coincide appunto con quella della Comunità, dalla conclusione
del Trattato di Roma ad oggi. È quindi del tutto naturale che Pedini assuma
l'esperienza comunitaria come il quadro di riferimento di tutto il suo discorso europeo
e si collochi nel suo interno, piuttosto che tentare di storicizzarla dall'esterno.
Senza tener conto di ciò non si comprenderebbero quelle che a prima
vista possono apparire delle lacune, come la mancanza di un esame critico del
Trattato e delle sue eventuali incongruità interne. Un discorso di questo tipo
avrebbe esulato dal piano dell'opera, nel quale l'integrazione europea è vista pragmaticamente
come un processo « in fieri », da assumersi come un dato sperimentabile
piuttosto che come un'ipotesi.
Considerato in questa luce, anche lo svolgimento storico della prima metà dell'opera,
articolato in due parti, dedicate rispettivamente al passato e al presente
della Comunità Europea, e interpretato, secondo modi prevalentemente narrativi,
come la crescita di un germe contrastato nella sua maturazione dal sopraggiungere
del « lungo inverno » gollista, ma tuttavia germogliante alla fine nel rilancio successivo
alla Conferenza dell'Afa, appare pienamente plausibile. Quella che in un
diverso contesto sarebbe probabilmente risultata un'eccessiva semplificazione si
giustifica infatti pienamente nella vivacità del racconto di Pedini, quale testimonianza
diretta di un'esperienza vissuta.
È comunque ,fuor di dubbio a mio parere che egli veda giusto quando ravvisa
nel fenomeno gollista il momento centrale della vicenda comunitaria di questi anni.
L'ombra del Generale De Gaulle si z infatti proiettata su tutto il primo decennio
di vita della Comunità e non appare possibile disconoscere come la crisi istituzionale
francese del maggio 1958 abbia acceso una grave ipoteca sull'intero sviluppo dell'integrazione
europea, inflettendone il corso storico secondo modalità non previste
dagli autori del Trattato di Roma. L'immagine di un De Gaulle protagonista della
storia europea di quegli anni, che emerge dalle pagine di questo libro, in virtù della
stessa dichiarata passione polemica che lo anima, risponde incontestabilmente alla.
realtà delle cose, anche se, a mio giudizio, come a quello dell'Autore, le conseguenze
di questa « leadership » sono state sostanzialmente negative ed hanno costituito
per l'Europa una remora piuttosto che un impulso stimolatore.
Altrettanto condivisibile appare, nel disegno storico efficacemente tratteggiato
nella prima parte dell'opera, il rilievo attribuito a due momenti decisivi: il grave
scontro determinatosi in seguito alle proposte avanzate nel 1965 dall'Esecutivo
della CEE al fine di rendere più efficiente il sistema comunitario attraverso l'attribuzione
di risorse finanziarie proprie e l'estensione dei poteri di controllo del
Parlamento Europeo e il rilancio promosso dal Vertice dell'Aia nel dicembre del
1969, dopo la fine del lungo « regno » politico del Generale. Col compromesso
raggiunto a Lussemburgo nel febbraio del 1966 si concludeva infatti, almeno
provvisoriamente, la crisi apertasi fin dal maggio del 1958, quando l'accessione
al potere del regime gollista aveva determinato l'insorgere di un conflitto insanabile
tra l'approccio funzionalistico e gradualistico cui si era ispirato fin dalle
origini il cosiddetto « metodo delle Comunità » e l'aspirazione dei nuovi dirigenti
francesi a ricondurre l'intero discorso europeo nell'alveo degli strumenti tradizionali
della collaborazione intergovernativa, facendone l'occasione per riproporre
in termini moderni ambizioni di egemonia continentale, rinverdite dal ritorno
di fiamma di un nazionalismo che i faticosi sviluppi della decolonizzazione avevano
esulcerato ed esasperato.
Questo libro testimonia in modo eloquente il dramma di un europeismo costretto
per un lungo volgere di anni a « giocare costantemente in difesa », subendo
l'iniziativa di un avversario sospettoso e intransigente. Quanti hanno avuto occasione
di partecipare, direttamente o indirettamente, alle vicende comunitarie
di quegli anni riconosceranno certamente nel racconto di Pedini l'amarezza delle
delusioni provate dinanzi alla lunga battuta d'arresto subita dal processo di integrazione
nei suoi aspetti politicamente più rilevanti, battuta d'arresto che il compromesso
di Lussemburgo, nella misura in cui sanciva il prevalere delle
impostazioni francesi, sembrò trasformare in una definitiva ibernazione. Queste
delusioni, tanto più gravi per chi, come l'Autore, si sentisse investito di dirette
responsabilità politiche, spiegano altresì l'accentuazione fortemente positiva data
ai risultati della Conferenza dell'Afa, che indubbiamente, per continuare nella
nostra metafora, « rimise in gioco » l'intera integrazione comunitaria, rivelando
nei successori del Generale la consapevolezza dell'impossibilità di considerare lo
stesso Mercato Comune come un fatto esclusivamente commerciale e quindi della
necessità di elaborare una nuova strategia, capace quanto meno di creare strumenti
di negoziato paradiplomatico più adeguati rispetto alla complessità dei problemi
da risolvere.
Per quanto mi riguarda, vorrei dire con chiarezza che non soltanto il rilievo attribuito
da Pedini al fenomeno gollista non mi sembra eccessivo, ma mi preoccupo
semmai che la giusta insistenza sulla personalità del Generale non abbia a mettere
in ombra gli ulteriori sviluppi di un'esperienza politica tutt'altro che conclusa. Se un
rischio può esservi a proposito del gollismo, è appunto quello di valutarlo in termini
eccessivamente restrittivi analogamente a quanto accadde - se è lecito qui un accostamento
del tutto privo di intenzioni ingiuriose - a quella corrente storiografica italiana,
di origine crociana, che propose una interpretazione « parentetica »
dell'esperienza fascista, ridotta in definitiva all'avventura personale di un megalomane,
col risultato di non coglierne le radici storiche profonde e soprattutto i postumi,
ancora chiaramente percepibili nella realtà italiana contemporanea.
La circostanza che la Comunità Europea abbia comunque resistito alla lunga
crisi che la travagliò nel suo primo anno di vita, compiendo progressi innegabili,
coane la realizzazione dell'unione doganale tra i Paesi membri, in anticipo rispetto
allo scadenzario previsto dal Trattato, e più ancora il fatto che, pur nella continuità
della politica estera francese, si sia venuto operando un indubbio adeguamento
alla mutata realtà dei rapporti intracomunitari può rendere ragione di
talune affermazioni forse eccessivamente ottimistiche contenute soprattutto nella
seconda parte di questo libro. Il forte chiaroscuro che contrappone alle nebbie del
passato le ben più luminose prospettive del presente e del prossimo avvenire non
potrebbe essere certo interpretato come un cedimento al gusto dello « happy end». Si tratta evidentemente anche qui di una questione di prospettiva. L'Autore -
non dimentichiamolo - è stato egli stesso partecipe, dal suo posto nel Consiglio
dei Ministri, dell'evoluzione « confederale » del sistema comunitario delineatasi
negli ultimi anni e, pur senza ignorarne i limiti, insiste soprattutto sugli elementi
dinamici della nuova situazione e sulle virtualità positive di una prassi negoziale
che, senza uscire dallo schema contrattualistico, innova tuttavia notevolmente rispetto
alle modalità tradizionali delle trattative bilaterali.
Questo approccio pragmatico trova oggi. consenzienti anche uomini di antica
e insospettabile ortodossia federalista. E ancor meno potrebbe scandalizzare chi
abbia vivo il senso dei limiti storici dell'intera costruzione comunitaria. È chiaro
tuttavia che, proprio in linea di fatto, un discorso di questo tipo appare accettabile
solo a condizione che alle enunciazioni di principio seguano i fatti e che il grande
disegno di una confederazione europea, vista come approssimazione storica ad
una più organica forma di integrazione, non si manifesti in pratica come un alibi,
destinato a coprire un larvato ritorno al bilateralismo nei rapporti tra le maggiori
potenze europee, a tutto danno degli alleati minori e della stessa coesione complessiva
della costruzione comune. Queste preoccupazioni acquistano un fondamento
preciso di fronte all'emergere di un direttorio a tre anglo-franco-tedesco, i
cui contatti preliminari rispetto ad ogni rilevante incontro politico comunitario
sembrano destinati ad attribuire a quest'ultimo un mero compito di sanzione .formale
di decisioni precostituite. Una prospettiva come questa è tanto più grave in
quanto la progressiva emergenza di nuove istituzioni confederali potrebbe sovrapporsi
al sistema comunitario esistente, generando conflitti di competenze e compromettendo
quella visione di insieme dei problemi dell'integrazione che, proprio
da un punto di vista pragmatico, è condizione insostituibile della tempestività e
dell'efficacia delle decisioni da prendere.
Da questo punto di vista, il problema istituzionale, considerato spesso come
un'astratta pregiudiziale di certo utopismo federalista, torna a riproporsi con
assoluta cogenza e appare del tutto legittimo chiedersi, anche alla luce dei recenti
insuccessi dell'Unione Economica e Monetaria, se i mezzi di cui ci si è avvalsi
finora siano davvero all'altezza di fini così ambiziosi come quelli che la
Comunità Europea dovrebbe perseguire nelle aspirazioni di un uomo di governo
come Pedini.
D'altra parte - e l'Autore ha il merito di riconoscerlo espressamente - l'esperienza
gollista non è stata in sé esclusivamente negativa. È stato proprio il gollismo
a discernere chiaramente, quando ancora questi temi erano patrimonio di
pochi, la necessità di un rinnovato ruolo mondiale dell'Europa e di una sua qualificazione
civile. Il suo limite insuperabile è stato altrove: nell'avere proposto
strumenti del tutto inadeguati al conseguimento di questi obiettivi, mutuando
da un passato ormai irripetibile la mitologia statonazionalistica in cui risiede in
realtà la radice profonda della strutturale inferiorità dei Paesi europei rispetto
alle massime potenze del mondo contemporaneo e rispetto agli stessi problemi
che la realtà presente ci propone. L'analisi di Pedini appare particolarmente convincente
a questo proposito, là dove egli insiste sul carattere illusorio della contrapposizione,
tanto spesso riproposta dalla propaganda gollista, tra allargamento
geografico e approfondimento istituzionale della Comunità. Tale alternativa era
infatti priva di contenuto reale, non perché l'allargamento non fosse destinato a
porre, come di fatto pone, gravi problemi dal punto di vista della coesione istituzionale
comunitaria, ma perché non vi era in chi la proponeva alcuna volontà
reale di giungere ad un effettivo approfondimento dei vincoli già esistenti.Sul filo
di queste considerazioni, l'Autore si sforza, nelle ultime due parti del libro, di
enucleare la sostanza di una « risposta europea », da proporre ai giovani come direzione
di marcia verso un futuro migliore. È questa probabilmente la parte più
stimolante di « Tempo d'Europa », in cui la testimonianza si fa necessariamente
più intima, investendo, al di là del ricordo di vicende ancora recenti, il più geloso
retroterra delle aspirazioni ideali dell'uomo. Anche in questo caso, egli non si diparte
tuttavia dal vigoroso senso di concretezza che è congeniale al suo temperamento
umano, prima ancora che politico. Ne sono prova le considerazioni svolte
all'inizio della parte terza nel mirabile capitolo su « La Comunità come organizzazione
di sviluppo regionale » che annovera pagine tra le più acute e penetranti
del libro. Al di là del mio pieno consenso personale per la tesi, cara a me non
meno che all'Autore, secondo cui la formazione nelle principali aree geografiche
di entità economico-istituzionali di tipo macroregionale rappresenta il solo possibile
superamento dell'alternativa inaccettabile tra il ritorno alle forme perente
di un liberoscambismo fondato rigidamente sulla legge dei costi comparati e il
generalizzarsi, altrettanto anacronistico, di un'involuzione neo-protezionistica,
queste pagine mi sembrano illuminanti proprio in quanto fondano l'aspirazione
ad un modello europeo di sviluppo sulla base di una realtà storica tangibile. È
chiaro infatti che, come all'interno dell'area integrata la conciliazione tra l'unione
doganale e l'assunzione da parte dei pubblici poteri delle responsabilità di orientamento
e di stimolo che incombono allo Stato moderno è resa possibile soltanto
dalla progressiva evoluzione verso strutture politiche di tipofederale, così anche
nel più vasto ambito dei rapporti internazionali e in modo particolare per quanto
attiene alle relazioni tra Paesi industriali e Paesi in via di sviluppo non potrebbe
bastare la pur necessaria generalizzazione delle preferenze ma si impongono interventi
positivi, ipotizzabili realisticamente solo in un preciso e delimitato ambito
macro-regionale.
In questo ordine di idee appare comprensibile ed opportuno che l'Autore abbia
voluto introdurre la parte più originale del libro, costituita dagli ultimi capitoli,
attraverso un esauriente esame delle prospettive aperte dalle relazioni esterne della
Comunità, anche se a questo riguardo si avverte forse la mancanza di una più organica
trattazione della tematica, oggi particolarmente attuale, relativa ai rapporti
euro-americani, di cui peraltro si discorre ampiamente in molti luoghi dell'opera.
Altrettanto significativo è notare come egli abbia voluto porre a conclusione del
suo scritto il tema più generale della collocazione, politica e ideale, dell'Europa
nel mondo contemporaneo, dimostrando con ciò la sua profonda sensibilità per
l'istanza mondialista che anima tanta parte delle nuove generazioni. Questa sollecitudine
verso un problema che la coscienza contemporanea avverte come cruciale
per l'avvenire dell'intera umanità conferisce altresì a « Tempo d'Europa » una
connotazione morale di inequivoca ispirazione cattolica, nel senso di un autentico
universalismo del tutto privo di qualsiasi schematismo ideologico. Il problema dell'estensione
geografica del fenomeno industriale è visto in queste pagine in tutta
la sua complessità, che non consente soluzioni unilaterali, investendo lo stesso tipo
di sviluppo di cui siamo tutti partecipi ed esigendo l'espressione di un giudizio morale
nei confronti di un'evoluzione che la prevalente mentalità tecnicistica vorrebbe
indurci ad accettare come un dato oggettivo e indiscutibile.
In termini storici, la « risposta europea » fornita da Pedini viene così ad investire
l'aspetto centrale del quesito che con tanta insistenza i giovani non cessano
di porre agli europeisti della nostra generazione. Essa chiarisce infatti come, non
soltanto i limiti geografici imposti al processo d'integrazione europea da una particolare
congiuntura storica e dall'esigenza di garantire comunque l'omogeneità
politico-istituzionale indispensabile al conseguimento degli obiettivi prefissi, non
abbiano comportato in alcun modo una rinuncia all'aspirazione mondialista che
animò il federalismo dei precursori, ma, al contrario, la Comunità Europea costituisca
la dimensione efficace per una nuova assunzione di responsabilità mondiali
da parte degli Europei in una situazione internazionale profondamente mutata e
caratterizzata dal progressivo affermarsi di un equilibrio multipolare.
Considerando le cose sotto una diversa angolazione, la conclusione di « Tempo
d'Europa », nella misura in cui propone ai giovani l'obiettivo di un equilibrato
sviluppo della Comunità mondiale come una finalità non meno nobile e certo
più urgente della stessa conquista degli spazi, implica altresì la richiesta di una
diversa finalizzazione della crescita economica dei Paesi più avanzati e in primo
luogo di quelli del nostro continente. Partito da premesse rigorosamente empiriche,
il discorso di Pedini si carica a questo punto di una esplicita tensione ideale,
secondo lo spirito di quella tradizione lombarda che egli così nobilmente rappresenta
nel nostro mondo politico. Il suo libro assolve così ad una sua precisa funzione
nel richiamare l'attenzione di un pubblico più vasto sul problema europeo,
raccomandandosi soprattutto alla lettura dei giovani, come illustrazione esauriente
di una problematica attualissima e come testimonianza di un serio impegno
personale. In questo senso esso è soprattutto un contributo al dialogo e come tale
ha per sua natura un valore altamente educativo.
Giuseppe Petrilli
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