QUADERNO AFRICANO
1974  

large product photo

 

L'Africa di Pedini è l'antimito. Nulla di retoricamente europeo cerca di alterarne i contorni. Essa viene praticata con un'oggettività a volte tanto forte da essere elementare: da un uomo politico che applica il più drastico principio antimperialista, al punto da ritenere 1a sua Africa un assunto fondamentale per un ringiovanimento dell'Europa. Lottando contro tutti coloro per i quali è ancora
difficile credere che i territori divenuti indipendenti tra il '56 e il '68, e quelli che stanno lottando per ottenere l'indipendenza, possano dare qualcosa di culturalmente e moralmente valido ad un continente che sta morendo come il Gran Mago alla Corte del Re Sole, sprofondato nel suo stupore di vedersi morire e tra i fantasmi vaganti del féisme. L'Africa di Pedini, invece, è fortemente antitotemica. E’ il risultato della Grande Palingenesi, il cui arco parte dall'Eurafrica medioevale, resa impossibile dal fatto che solo i popoli d'Europa seppero reagire alla decadenza, e arriva ad una nuova ipotesi di mondo eurafricano, in cui sembra che solo ai nascenti popoli di colore siano concessi antidoti contro la corruzione del vecchio sistema figlio del periodo europeo. E un'Africa vista quasi esclusivamente nel recupero della dignità antica grazie ad una giovinezza sociale e spirituale che noi non abbiamo più. Pedini crede che i continenti debbano soffrire un loro purgatorio per rinascere dalle ceneri e chel'Africa abbia pagato un suo scotto addirittura infernale. Così come crede, con Gandhi, che gli scritti debbano rifuggire dal commentario per diventare ipotesi di lavoro utile alla causa di una nuova convivenza delle genti. Questo Quaderno, di conseguenza, non ci fa scoprire che l'uomo africano, prospettandolo in una serie di concrete possibilità collaborative. D'ora in poi non ci sarà più possibile visualizzarlo nella nostra immaginazione; dovremo capire che, spesso, una simile immaginazione era un espediente inconfessato e inconscio di un deteriore istinto colonialista. E' un uomo che va conosciuto e Pedini, da anni esploratore non del magico o del misterioso ma della concretezza, ci offre elementi essenziali di conoscenza. La proposta è di unirci a lui per formarci insieme una coscienza del mondo, non del continente. Non a caso Pedini è l'italiano del Biafra: ossia tino dei pochi politici bianchi che i politici di colore riconoscano come interlocutore, al punto da fidarsi della sua parola, e solo di quella, quando si tratta di scongiurare le tragedie dell'incomprensione. Diciamo pure che Pedini è il nostro mediatore più degno di fede nelle complesse aree del Terzo Mondo, proprio perché la sua è l'Africa dell'Europa deprivilegiata, capace di opporre alle nostre le sue scelte politiche e di far capire a noi stessi le ragioni più profonde della caduta del colonialismo. Nasce da queste premesse lo stile di chi si sente immediatamente coinvolto in ciò che descrive: la percezione analitica riduce al minimo le compiacenze divaganti ed estrose, raggiunge l'umile prosaicità di un evangelo che balena qua e là di melodiosi richiami lirici, ma è soprattutto pervaso da un aspro senso del pellegrinaggio.
Pedini visita i suoi luoghi. Vi ritorna. Il suo cristianesimo consiste in un amore che è capire e nel trasmettere al lettore il capito con un'estrema precisione, anche linguistica. Per cui il mondo storico risulta dal mondo quotidiano, analizzato nelle sue sofferenze e nelle sue esaltazioni più dell'essere che del vivere. Pedini, pur partendo programmaticamente da presupposti generali (afferma addirittura, nell'introduzione, « si tratta di ricavare da queste circostanze una proposta di programma di azione comune condotta con solidarietà e proiettata verso il bene della comunità internazionale »), sembra evadere continuamente nelle piccole cose. Tuttavia riesce a dare, a queste piccole cose, un significato di assolutezza sociale e ideologica.
Glielo consente, appunto, la sua esperienza diretta. Troppo si è parlato dell'Africa con lo spirito, più o meno geniale, del passeggero. Mentre Pedini ha la struttura dell'indigeno: cioè di chi ha scoperto in un continente non suo la sede naturale del suo essere uomo. Africano bianco, lo chiamano in alcuni paesi, ed è una giusta definizione del suo mettersi alla pari, così naturale e istintivo, con i protagonisti umili o primari della rinascita africana. Anche questo pudore disinibito,
spoglio d'ogni preoccupazione d'essere ospite, è una componente dello stile di Pedini; e il Quaderno, che a molti apparirà un diario, è in realtà una biografia: la biografia dell'alter ego africano di Pedini. Non va sottovalutato il riferimento costante che l'autore fa ai grandi movimenti
popolari che, nel corso del secolo, hanno mutato il volto dell'Europa. Egli pone infatti la più evidente analogia o possibilità di confronto tra i due continenti nella formazione contemporanea di un'unità popolare africana e di una nuova coscienza culturale del popolo europeo, finalmente giudicante al di fuor i del suo ghetto storico-riduttivo, del concetto declassante dei poteri aristocratici. Una comune tendenza alla rivalsa (spirituale oltre che concretamente strategica) si riscontra in molte aree popolari dell'una e dell'altra civiltà; ed è su questa lotta, che ha caratteristiche parallele, contro la violenta schiavitù dello spirito, che Pedini si sofferma: ripeto, preferendo stilisticamente 1a denuncia allusiva a quella esplicita. in ciò, egli non perde mai di vista che il continente africano occupa gli ultimi posti della scala economica o sanitaria, ecc. Ma la scala di Pedini è avanzante. Risiede in quel margine di conquista ideologica che,pur di fronte allo spaventoso spettacolo della farne, f a dire al più caro e costante interlocutore del nostro autore, Léopold Sédar Senghor, presidente del Senegal, « ormai siamo quasi-nazioni ». Il quasi rispecchia, appunto, le sopravviventi piaghe sociali, le cui percentuali di riduzione sono però notevoli; mentre la nazione esiste all'insegna di un rinato, e commovente, e comunque gigantesco mito dell'uomo. Per Senghor come per Pedini, l'uomo può ricostruire il mondo. Ed è miracoloso che simili affermazioni di fede nell'ideologia dell'uomo risuonino, con una cieca e sublime esortazione mosaica, tanto più cieca in quanto non si vede anacronistica, in quel deserto delle Nazioni Unite (un'altra espressione di Senghor) dove si rovesciano i drammi della disumanizzazione, dell'odio tra le razze, i capricci mortali dei mostri del trust, il cui gelido terzo occhio, affollato di calcolati furori, si è sostituito alle menti e agli spiriti.
Ciò che era stato profetizzato da scrittori a noi poco noti, e basterebbero i nomi di Alioune Diop e di Fodeba Keita, di Amos Tutuola e di Mario de Andrade, trova conferma in questo Quaderno che dev'essere accolto come il primo atto di una serie di iniziative culturali indispensabili, urgenti, a meno di non uscire da una vera coscienza della storia. E ancora una cosa va detta: che le pagine di Pedini hanno la loro radice nel culto dei Vangeli, in particolare di quello secondo Luca, che più immediatamente presenta Gesù uomo in mezzo agli uomini. Non dimentichiamo che 1o scopo dichiarato all'inizio della sublime operazione evangelica era di scrivere, per 1o sconosciuto
Teofilo, « il racconto dei fatti verificatisi tra noi apostoli ». E il tra noi, divenuto altissimo, era inizialmente il più umile e semplice. Anche Quaderno africano è il racconto di fatti accaduti tra chi cerca di ascoltare nel peggiore dei deserti, quello dell'intrico (o intrigo) politico, qualche voce che chiami ad una nuova realtà dello spirito; con uno scopo che sembra di disarmante umiltà: pretendere che nell'uomo ritorni la voglia di vivere.

Alberto Bevilacqua