L'Africa di Pedini è l'antimito. Nulla di retoricamente
europeo cerca di alterarne i contorni.
Essa viene praticata con un'oggettività
a volte tanto forte da essere elementare: da
un uomo politico che applica il più drastico
principio antimperialista, al punto da ritenere
1a sua Africa un assunto fondamentale
per un ringiovanimento dell'Europa. Lottando
contro tutti coloro per i quali è ancora
difficile credere che i territori divenuti indipendenti
tra il '56 e il '68, e quelli che stanno
lottando per ottenere l'indipendenza, possano
dare qualcosa di culturalmente e moralmente
valido ad un continente che sta
morendo come il Gran Mago alla Corte del
Re Sole, sprofondato nel suo stupore di vedersi morire e tra i fantasmi vaganti
del féisme.
L'Africa di Pedini, invece, è fortemente antitotemica. E’ il risultato della
Grande Palingenesi, il cui arco parte dall'Eurafrica medioevale, resa impossibile
dal fatto che solo i popoli d'Europa seppero reagire alla decadenza, e arriva ad
una nuova ipotesi di mondo eurafricano, in cui sembra che solo ai nascenti popoli
di colore siano concessi antidoti contro la corruzione del vecchio sistema figlio
del periodo europeo. E un'Africa vista quasi esclusivamente nel recupero della
dignità antica grazie ad una giovinezza sociale e spirituale che noi non abbiamo
più. Pedini crede che i continenti debbano soffrire un loro purgatorio per rinascere
dalle ceneri e chel'Africa abbia pagato un suo scotto addirittura infernale. Così
come crede, con Gandhi, che gli scritti debbano rifuggire dal commentario per
diventare ipotesi di lavoro utile alla causa di una nuova convivenza delle genti.
Questo Quaderno, di conseguenza, non ci fa scoprire che l'uomo africano, prospettandolo
in una serie di concrete possibilità collaborative. D'ora in poi non ci
sarà più possibile visualizzarlo nella nostra immaginazione; dovremo capire che,
spesso, una simile immaginazione era un espediente inconfessato e inconscio di
un deteriore istinto colonialista. E' un uomo che va conosciuto e Pedini, da anni
esploratore non del magico o del misterioso ma della concretezza, ci offre elementi
essenziali di conoscenza. La proposta è di unirci a lui per formarci insieme una
coscienza del mondo, non del continente.
Non a caso Pedini è l'italiano del Biafra: ossia tino dei pochi politici bianchi
che i politici di colore riconoscano come interlocutore, al punto da fidarsi della
sua parola, e solo di quella, quando si tratta di scongiurare le tragedie dell'incomprensione.
Diciamo pure che Pedini è il nostro mediatore più degno di fede nelle
complesse aree del Terzo Mondo, proprio perché la sua è l'Africa dell'Europa deprivilegiata,
capace di opporre alle nostre le sue scelte politiche e di far capire a
noi stessi le ragioni più profonde della caduta del colonialismo.
Nasce da queste premesse lo stile di chi si sente immediatamente coinvolto in
ciò che descrive: la percezione analitica riduce al minimo le compiacenze divaganti
ed estrose, raggiunge l'umile prosaicità di un evangelo che balena qua e là di melodiosi
richiami lirici, ma è soprattutto pervaso da un aspro senso del pellegrinaggio.
Pedini visita i suoi luoghi. Vi ritorna. Il suo cristianesimo consiste in un
amore che è capire e nel trasmettere al lettore il capito con un'estrema precisione,
anche linguistica. Per cui il mondo storico risulta dal mondo quotidiano, analizzato
nelle sue sofferenze e nelle sue esaltazioni più dell'essere che del vivere.
Pedini, pur partendo programmaticamente da presupposti generali (afferma
addirittura, nell'introduzione, « si tratta di ricavare da queste circostanze una
proposta di programma di azione comune condotta con solidarietà e proiettata
verso il bene della comunità internazionale »), sembra evadere continuamente
nelle piccole cose. Tuttavia riesce a dare, a queste piccole cose, un significato di
assolutezza sociale e ideologica.
Glielo consente, appunto, la sua esperienza diretta. Troppo si è parlato dell'Africa
con lo spirito, più o meno geniale, del passeggero. Mentre Pedini ha la
struttura dell'indigeno: cioè di chi ha scoperto in un continente non suo la sede
naturale del suo essere uomo. Africano bianco, lo chiamano in alcuni paesi, ed è
una giusta definizione del suo mettersi alla pari, così naturale e istintivo, con i
protagonisti umili o primari della rinascita africana. Anche questo pudore disinibito,
spoglio d'ogni preoccupazione d'essere ospite, è una componente dello stile
di Pedini; e il Quaderno, che a molti apparirà un diario, è in realtà una biografia:
la biografia dell'alter ego africano di Pedini.
Non va sottovalutato il riferimento costante che l'autore fa ai grandi movimenti
popolari che, nel corso del secolo, hanno mutato il volto dell'Europa. Egli
pone infatti la più evidente analogia o possibilità di confronto tra i due continenti
nella formazione contemporanea di un'unità popolare africana e di una nuova
coscienza culturale del popolo europeo, finalmente giudicante al di fuor i del suo
ghetto storico-riduttivo, del concetto declassante dei poteri aristocratici. Una comune
tendenza alla rivalsa (spirituale oltre che concretamente strategica) si riscontra
in molte aree popolari dell'una e dell'altra civiltà; ed è su questa lotta,
che ha caratteristiche parallele, contro la violenta schiavitù dello spirito, che Pedini
si sofferma: ripeto, preferendo stilisticamente 1a denuncia allusiva a quella
esplicita.
in ciò, egli non perde mai di vista che il continente africano occupa gli ultimi
posti della scala economica o sanitaria, ecc. Ma la scala di Pedini è avanzante. Risiede
in quel margine di conquista ideologica che,pur di fronte allo spaventoso spettacolo
della farne, f a dire al più caro e costante interlocutore del nostro autore,
Léopold Sédar Senghor, presidente del Senegal, « ormai siamo quasi-nazioni ». Il
quasi rispecchia, appunto, le sopravviventi piaghe sociali, le cui percentuali di riduzione
sono però notevoli; mentre la nazione esiste all'insegna di un rinato, e commovente,
e comunque gigantesco mito dell'uomo. Per Senghor come per Pedini,
l'uomo può ricostruire il mondo. Ed è miracoloso che simili affermazioni di fede
nell'ideologia dell'uomo risuonino, con una cieca e sublime esortazione mosaica,
tanto più cieca in quanto non si vede anacronistica, in quel deserto delle Nazioni
Unite (un'altra espressione di Senghor) dove si rovesciano i drammi della disumanizzazione,
dell'odio tra le razze, i capricci mortali dei mostri del trust, il cui gelido
terzo occhio, affollato di calcolati furori, si è sostituito alle menti e agli spiriti.
Ciò che era stato profetizzato da scrittori a noi poco noti, e basterebbero i nomi
di Alioune Diop e di Fodeba Keita, di Amos Tutuola e di Mario de Andrade,
trova conferma in questo Quaderno che dev'essere accolto come il primo atto di
una serie di iniziative culturali indispensabili, urgenti, a meno di non uscire da
una vera coscienza della storia.
E ancora una cosa va detta: che le pagine di Pedini hanno la loro radice nel
culto dei Vangeli, in particolare di quello secondo Luca, che più immediatamente
presenta Gesù uomo in mezzo agli uomini. Non dimentichiamo che 1o scopo dichiarato
all'inizio della sublime operazione evangelica era di scrivere, per 1o sconosciuto
Teofilo, « il racconto dei fatti verificatisi tra noi apostoli ». E il tra noi,
divenuto altissimo, era inizialmente il più umile e semplice. Anche Quaderno
africano è il racconto di fatti accaduti tra chi cerca di ascoltare nel peggiore dei
deserti, quello dell'intrico (o intrigo) politico, qualche voce che chiami ad una
nuova realtà dello spirito; con uno scopo che sembra di disarmante umiltà: pretendere
che nell'uomo ritorni la voglia di vivere.
Alberto Bevilacqua
|