TEMPO D'EUROPA
1972  

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Ciò che più colpisce un attento lettore di questo libro è il suo carattere rigorosamente unitario, che vale fin dall’inizio a, fugare ogni sospetto di approssimazione compilatoria, differenziandolo nettamente dalla maggior parte degli scritti che gli uomini politici sogliono pubblicare di tempo in tempo, quasi a segnare « a posteriori » le tappe della loro carriera. Fin dalle prime pagine dell'introduzione, l'On. Mario Pedini pone infatti con assoluta chiarezza il tema dell'opera, già efficacemente sintetizzato nel titolo, soffermandosi sul contrasto tra aspirazioni e realtà, tra il dover essere e l'essere che - certo presenti in ogni momento dell'umana vicenda, come un dato universale della nostra comune condizione - appare a noi contemporanei particolarmente manifesto nel mondo che ci circonda. Il nostro mondo è infatti percorso da tensioni che sono nelle cose prima ancora che nella nostra coscienza e in fondo riflettono l'impatto esercitato sulla nostra mentalità e sul nostro modo di vivere dall'indubbia accelerazione del processo storico di cui tutti siamo partecipi. Profondamente inserito nella realtà che muta in relazione alle sue stesse rilevanti responsabilità di uomo politico e intimamente interessato a cogliere il senso profondo dell'inquietudine e della protesta serpeggiante nella nostra società, l'Autore ha concepito questa sua opera come una meditazione sul nostro tempo, stimolato a scriverla dal desiderio di reperire una risposta valida agli interrogativi posti, in modo talora violento dalla cosiddetta contestazione, verso la quale egli si pone con animo sereno e scevro di avversioni pregiudiziali, attento a coglierne e in qualche misura a farne proprie le ragioni storiche e le motivazioni morali, quali si riassumono nell'ormai pressoché universale riconoscimento di una pericolosa divergenza tra la crescente razionalità dei mezzi tecnici di cui dispongono le società più evolute e la persistente irrazionalità dei fini che ancora per tanta parte quelle stesse società si prefiggono. La sua preoccupazione di fondo è quella di indicare ai lettori, e soprattutto ai giovani, la via di una soluzione positiva di queste contraddizioni, che non passi attraverso i vecchi sentieri della violenza, bellica o rivoluzionaria, di cui la Storia ha tanto spesso verificato la sostanziale impraticabilità ed il carattere dispersivo.
Da questo punto di vista, il merito maggiore del libro che presentiamo sta nel suo impianto francamente autobiografico, quale emerge espressamente dalla sua introduzione, nella quale Pedini ripercorre a volo d'uccello le tappe della sua carriera europea, precisando come l'opera sia nata dalla meditazione di un uomo d'azione intorno alla propria esperienza vissuta. E proprio questo impianto autobiografico, che qua e là traspare tra le righe come un sottile filo conduttore, a conferire una reale attendibilità alla risposta da lui suggerita e condensata nel titolo di queste pagine, secondo cui il nostro tempo è appunto un « Tempo d'Europa ». Mi sembra quindi che il modo giusto di leggerle stia nel ravvisarvi la replica di un democratico di matura esperienza ad un interlocutore ideale, che potrebbe essere un giovane studente, rispetto al quale egli si pone come un padre rispetto al proprio figlio. Questa esplicita assunzione di responsabilità non può non suscitare la simpatia di un lettore non prevenuto. L'Autore non si trincera infatti dietro la pretesa obiettività dello storico, ma si confessa partecipe dei meriti e dei limiti dell'azione che ha concorso a realizzare, come si conviene ad un politico. Queste considerazioni devono essere tenute nel debito conto da chi intenda accostarsi a« Tempo d'Europa » per capirlo e valutarlo nella sua giusta chiave, senza adombrarsi per la presenza di accenti che potrebbero talora apparire apologetici, non certo in senso personale, ma come espressione della solidarietà storica che lega lo scrittore agli ideali della sua generazione e della sua parte politica. In altre parole, non siamo qui di fronte ad un'analisi teorica, ma allo scritto di un militante, da collocarsi nell'ambito di un saggismo politicamente e moralmente impegnato e non privo qua e là di risvolti addirittura memorialistici. L'unità dell'opera è data del resto, oltre che dalla sua articolazione dialogica, dai suoi stessi limiti di tempo, i quali coincidono, a riprova di quanto si è detto del suo carattere autobiografico, con quelli dell'esperienza vissuta dall'Autore quale parlamentare e uomo di governo investito di responsabilità in ordine all'integrazione europea, dapprima nel Parlamento Europeo e poi nell'ambito del Consiglio dei Ministri della Comunità.
Questa esperienza coincide appunto con quella della Comunità, dalla conclusione del Trattato di Roma ad oggi. È quindi del tutto naturale che Pedini assuma l'esperienza comunitaria come il quadro di riferimento di tutto il suo discorso europeo e si collochi nel suo interno, piuttosto che tentare di storicizzarla dall'esterno. Senza tener conto di ciò non si comprenderebbero quelle che a prima vista possono apparire delle lacune, come la mancanza di un esame critico del Trattato e delle sue eventuali incongruità interne. Un discorso di questo tipo avrebbe esulato dal piano dell'opera, nel quale l'integrazione europea è vista pragmaticamente come un processo « in fieri », da assumersi come un dato sperimentabile piuttosto che come un'ipotesi. Considerato in questa luce, anche lo svolgimento storico della prima metà dell'opera, articolato in due parti, dedicate rispettivamente al passato e al presente della Comunità Europea, e interpretato, secondo modi prevalentemente narrativi, come la crescita di un germe contrastato nella sua maturazione dal sopraggiungere del « lungo inverno » gollista, ma tuttavia germogliante alla fine nel rilancio successivo alla Conferenza dell'Afa, appare pienamente plausibile. Quella che in un diverso contesto sarebbe probabilmente risultata un'eccessiva semplificazione si giustifica infatti pienamente nella vivacità del racconto di Pedini, quale testimonianza diretta di un'esperienza vissuta.
È comunque ,fuor di dubbio a mio parere che egli veda giusto quando ravvisa nel fenomeno gollista il momento centrale della vicenda comunitaria di questi anni. L'ombra del Generale De Gaulle si z infatti proiettata su tutto il primo decennio di vita della Comunità e non appare possibile disconoscere come la crisi istituzionale francese del maggio 1958 abbia acceso una grave ipoteca sull'intero sviluppo dell'integrazione europea, inflettendone il corso storico secondo modalità non previste dagli autori del Trattato di Roma. L'immagine di un De Gaulle protagonista della storia europea di quegli anni, che emerge dalle pagine di questo libro, in virtù della stessa dichiarata passione polemica che lo anima, risponde incontestabilmente alla. realtà delle cose, anche se, a mio giudizio, come a quello dell'Autore, le conseguenze di questa « leadership » sono state sostanzialmente negative ed hanno costituito per l'Europa una remora piuttosto che un impulso stimolatore. Altrettanto condivisibile appare, nel disegno storico efficacemente tratteggiato nella prima parte dell'opera, il rilievo attribuito a due momenti decisivi: il grave scontro determinatosi in seguito alle proposte avanzate nel 1965 dall'Esecutivo della CEE al fine di rendere più efficiente il sistema comunitario attraverso l'attribuzione di risorse finanziarie proprie e l'estensione dei poteri di controllo del Parlamento Europeo e il rilancio promosso dal Vertice dell'Aia nel dicembre del 1969, dopo la fine del lungo « regno » politico del Generale. Col compromesso raggiunto a Lussemburgo nel febbraio del 1966 si concludeva infatti, almeno provvisoriamente, la crisi apertasi fin dal maggio del 1958, quando l'accessione al potere del regime gollista aveva determinato l'insorgere di un conflitto insanabile tra l'approccio funzionalistico e gradualistico cui si era ispirato fin dalle origini il cosiddetto « metodo delle Comunità » e l'aspirazione dei nuovi dirigenti francesi a ricondurre l'intero discorso europeo nell'alveo degli strumenti tradizionali della collaborazione intergovernativa, facendone l'occasione per riproporre in termini moderni ambizioni di egemonia continentale, rinverdite dal ritorno di fiamma di un nazionalismo che i faticosi sviluppi della decolonizzazione avevano esulcerato ed esasperato.
Questo libro testimonia in modo eloquente il dramma di un europeismo costretto per un lungo volgere di anni a « giocare costantemente in difesa », subendo l'iniziativa di un avversario sospettoso e intransigente. Quanti hanno avuto occasione di partecipare, direttamente o indirettamente, alle vicende comunitarie di quegli anni riconosceranno certamente nel racconto di Pedini l'amarezza delle delusioni provate dinanzi alla lunga battuta d'arresto subita dal processo di integrazione nei suoi aspetti politicamente più rilevanti, battuta d'arresto che il compromesso di Lussemburgo, nella misura in cui sanciva il prevalere delle impostazioni francesi, sembrò trasformare in una definitiva ibernazione. Queste delusioni, tanto più gravi per chi, come l'Autore, si sentisse investito di dirette responsabilità politiche, spiegano altresì l'accentuazione fortemente positiva data ai risultati della Conferenza dell'Afa, che indubbiamente, per continuare nella nostra metafora, « rimise in gioco » l'intera integrazione comunitaria, rivelando nei successori del Generale la consapevolezza dell'impossibilità di considerare lo stesso Mercato Comune come un fatto esclusivamente commerciale e quindi della necessità di elaborare una nuova strategia, capace quanto meno di creare strumenti di negoziato paradiplomatico più adeguati rispetto alla complessità dei problemi da risolvere.
Per quanto mi riguarda, vorrei dire con chiarezza che non soltanto il rilievo attribuito da Pedini al fenomeno gollista non mi sembra eccessivo, ma mi preoccupo semmai che la giusta insistenza sulla personalità del Generale non abbia a mettere in ombra gli ulteriori sviluppi di un'esperienza politica tutt'altro che conclusa. Se un rischio può esservi a proposito del gollismo, è appunto quello di valutarlo in termini eccessivamente restrittivi analogamente a quanto accadde - se è lecito qui un accostamento del tutto privo di intenzioni ingiuriose - a quella corrente storiografica italiana, di origine crociana, che propose una interpretazione « parentetica » dell'esperienza fascista, ridotta in definitiva all'avventura personale di un megalomane, col risultato di non coglierne le radici storiche profonde e soprattutto i postumi, ancora chiaramente percepibili nella realtà italiana contemporanea. La circostanza che la Comunità Europea abbia comunque resistito alla lunga crisi che la travagliò nel suo primo anno di vita, compiendo progressi innegabili, coane la realizzazione dell'unione doganale tra i Paesi membri, in anticipo rispetto allo scadenzario previsto dal Trattato, e più ancora il fatto che, pur nella continuità della politica estera francese, si sia venuto operando un indubbio adeguamento alla mutata realtà dei rapporti intracomunitari può rendere ragione di talune affermazioni forse eccessivamente ottimistiche contenute soprattutto nella seconda parte di questo libro. Il forte chiaroscuro che contrappone alle nebbie del passato le ben più luminose prospettive del presente e del prossimo avvenire non potrebbe essere certo interpretato come un cedimento al gusto dello « happy end». Si tratta evidentemente anche qui di una questione di prospettiva. L'Autore - non dimentichiamolo - è stato egli stesso partecipe, dal suo posto nel Consiglio dei Ministri, dell'evoluzione « confederale » del sistema comunitario delineatasi negli ultimi anni e, pur senza ignorarne i limiti, insiste soprattutto sugli elementi dinamici della nuova situazione e sulle virtualità positive di una prassi negoziale che, senza uscire dallo schema contrattualistico, innova tuttavia notevolmente rispetto alle modalità tradizionali delle trattative bilaterali.
Questo approccio pragmatico trova oggi. consenzienti anche uomini di antica e insospettabile ortodossia federalista. E ancor meno potrebbe scandalizzare chi abbia vivo il senso dei limiti storici dell'intera costruzione comunitaria. È chiaro tuttavia che, proprio in linea di fatto, un discorso di questo tipo appare accettabile solo a condizione che alle enunciazioni di principio seguano i fatti e che il grande disegno di una confederazione europea, vista come approssimazione storica ad una più organica forma di integrazione, non si manifesti in pratica come un alibi, destinato a coprire un larvato ritorno al bilateralismo nei rapporti tra le maggiori potenze europee, a tutto danno degli alleati minori e della stessa coesione complessiva della costruzione comune. Queste preoccupazioni acquistano un fondamento preciso di fronte all'emergere di un direttorio a tre anglo-franco-tedesco, i cui contatti preliminari rispetto ad ogni rilevante incontro politico comunitario sembrano destinati ad attribuire a quest'ultimo un mero compito di sanzione .formale di decisioni precostituite. Una prospettiva come questa è tanto più grave in quanto la progressiva emergenza di nuove istituzioni confederali potrebbe sovrapporsi al sistema comunitario esistente, generando conflitti di competenze e compromettendo quella visione di insieme dei problemi dell'integrazione che, proprio da un punto di vista pragmatico, è condizione insostituibile della tempestività e dell'efficacia delle decisioni da prendere. Da questo punto di vista, il problema istituzionale, considerato spesso come un'astratta pregiudiziale di certo utopismo federalista, torna a riproporsi con assoluta cogenza e appare del tutto legittimo chiedersi, anche alla luce dei recenti insuccessi dell'Unione Economica e Monetaria, se i mezzi di cui ci si è avvalsi finora siano davvero all'altezza di fini così ambiziosi come quelli che la Comunità Europea dovrebbe perseguire nelle aspirazioni di un uomo di governo come Pedini.
D'altra parte - e l'Autore ha il merito di riconoscerlo espressamente - l'esperienza gollista non è stata in sé esclusivamente negativa. È stato proprio il gollismo a discernere chiaramente, quando ancora questi temi erano patrimonio di pochi, la necessità di un rinnovato ruolo mondiale dell'Europa e di una sua qualificazione civile. Il suo limite insuperabile è stato altrove: nell'avere proposto strumenti del tutto inadeguati al conseguimento di questi obiettivi, mutuando da un passato ormai irripetibile la mitologia statonazionalistica in cui risiede in realtà la radice profonda della strutturale inferiorità dei Paesi europei rispetto alle massime potenze del mondo contemporaneo e rispetto agli stessi problemi che la realtà presente ci propone. L'analisi di Pedini appare particolarmente convincente a questo proposito, là dove egli insiste sul carattere illusorio della contrapposizione, tanto spesso riproposta dalla propaganda gollista, tra allargamento geografico e approfondimento istituzionale della Comunità. Tale alternativa era infatti priva di contenuto reale, non perché l'allargamento non fosse destinato a porre, come di fatto pone, gravi problemi dal punto di vista della coesione istituzionale comunitaria, ma perché non vi era in chi la proponeva alcuna volontà reale di giungere ad un effettivo approfondimento dei vincoli già esistenti.Sul filo di queste considerazioni, l'Autore si sforza, nelle ultime due parti del libro, di enucleare la sostanza di una « risposta europea », da proporre ai giovani come direzione di marcia verso un futuro migliore. È questa probabilmente la parte più stimolante di « Tempo d'Europa », in cui la testimonianza si fa necessariamente più intima, investendo, al di là del ricordo di vicende ancora recenti, il più geloso retroterra delle aspirazioni ideali dell'uomo. Anche in questo caso, egli non si diparte tuttavia dal vigoroso senso di concretezza che è congeniale al suo temperamento umano, prima ancora che politico. Ne sono prova le considerazioni svolte all'inizio della parte terza nel mirabile capitolo su « La Comunità come organizzazione di sviluppo regionale » che annovera pagine tra le più acute e penetranti del libro. Al di là del mio pieno consenso personale per la tesi, cara a me non meno che all'Autore, secondo cui la formazione nelle principali aree geografiche di entità economico-istituzionali di tipo macroregionale rappresenta il solo possibile superamento dell'alternativa inaccettabile tra il ritorno alle forme perente di un liberoscambismo fondato rigidamente sulla legge dei costi comparati e il generalizzarsi, altrettanto anacronistico, di un'involuzione neo-protezionistica, queste pagine mi sembrano illuminanti proprio in quanto fondano l'aspirazione ad un modello europeo di sviluppo sulla base di una realtà storica tangibile. È chiaro infatti che, come all'interno dell'area integrata la conciliazione tra l'unione doganale e l'assunzione da parte dei pubblici poteri delle responsabilità di orientamento e di stimolo che incombono allo Stato moderno è resa possibile soltanto dalla progressiva evoluzione verso strutture politiche di tipofederale, così anche nel più vasto ambito dei rapporti internazionali e in modo particolare per quanto attiene alle relazioni tra Paesi industriali e Paesi in via di sviluppo non potrebbe bastare la pur necessaria generalizzazione delle preferenze ma si impongono interventi positivi, ipotizzabili realisticamente solo in un preciso e delimitato ambito macro-regionale.
In questo ordine di idee appare comprensibile ed opportuno che l'Autore abbia voluto introdurre la parte più originale del libro, costituita dagli ultimi capitoli, attraverso un esauriente esame delle prospettive aperte dalle relazioni esterne della Comunità, anche se a questo riguardo si avverte forse la mancanza di una più organica trattazione della tematica, oggi particolarmente attuale, relativa ai rapporti euro-americani, di cui peraltro si discorre ampiamente in molti luoghi dell'opera. Altrettanto significativo è notare come egli abbia voluto porre a conclusione del suo scritto il tema più generale della collocazione, politica e ideale, dell'Europa nel mondo contemporaneo, dimostrando con ciò la sua profonda sensibilità per l'istanza mondialista che anima tanta parte delle nuove generazioni. Questa sollecitudine verso un problema che la coscienza contemporanea avverte come cruciale per l'avvenire dell'intera umanità conferisce altresì a « Tempo d'Europa » una connotazione morale di inequivoca ispirazione cattolica, nel senso di un autentico universalismo del tutto privo di qualsiasi schematismo ideologico. Il problema dell'estensione geografica del fenomeno industriale è visto in queste pagine in tutta la sua complessità, che non consente soluzioni unilaterali, investendo lo stesso tipo di sviluppo di cui siamo tutti partecipi ed esigendo l'espressione di un giudizio morale nei confronti di un'evoluzione che la prevalente mentalità tecnicistica vorrebbe indurci ad accettare come un dato oggettivo e indiscutibile.
In termini storici, la « risposta europea » fornita da Pedini viene così ad investire l'aspetto centrale del quesito che con tanta insistenza i giovani non cessano di porre agli europeisti della nostra generazione. Essa chiarisce infatti come, non soltanto i limiti geografici imposti al processo d'integrazione europea da una particolare congiuntura storica e dall'esigenza di garantire comunque l'omogeneità politico-istituzionale indispensabile al conseguimento degli obiettivi prefissi, non abbiano comportato in alcun modo una rinuncia all'aspirazione mondialista che animò il federalismo dei precursori, ma, al contrario, la Comunità Europea costituisca la dimensione efficace per una nuova assunzione di responsabilità mondiali da parte degli Europei in una situazione internazionale profondamente mutata e caratterizzata dal progressivo affermarsi di un equilibrio multipolare. Considerando le cose sotto una diversa angolazione, la conclusione di « Tempo d'Europa », nella misura in cui propone ai giovani l'obiettivo di un equilibrato sviluppo della Comunità mondiale come una finalità non meno nobile e certo più urgente della stessa conquista degli spazi, implica altresì la richiesta di una diversa finalizzazione della crescita economica dei Paesi più avanzati e in primo luogo di quelli del nostro continente. Partito da premesse rigorosamente empiriche, il discorso di Pedini si carica a questo punto di una esplicita tensione ideale, secondo lo spirito di quella tradizione lombarda che egli così nobilmente rappresenta nel nostro mondo politico. Il suo libro assolve così ad una sua precisa funzione nel richiamare l'attenzione di un pubblico più vasto sul problema europeo, raccomandandosi soprattutto alla lettura dei giovani, come illustrazione esauriente di una problematica attualissima e come testimonianza di un serio impegno personale. In questo senso esso è soprattutto un contributo al dialogo e come tale ha per sua natura un valore altamente educativo.

Giuseppe Petrilli