TRA CULTURA E AZIONE POLITICA - Quattro anni a Palazzo Chigi 1975/1979
2002  

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È per me un onore ed un piacere concorrere, a nome dell'Istituto ACTON di Roma, alla presentazione dell'ultima preziosa fatica letteraria di Mario Pedini.
L'opera ci offre uno spaccato di vita, nel corso di diversi anni, di un uomo politico chiamato al Governo del Paese. È nota la sua prestigiosa biografia politica come altrettanto ammirevole è la sua biografia spirituale e intellettuale. Nello scrigno dei mille e mille frammenti, fatti di incontri, viaggi, impegni legislativi, interventi in Italia, in Europa e nel resto del Mondo, è come se fosse racchiuso, espandendosi poi luminosamente, il tutto della personalità, della passione politica, dell'amore alla vita, dell'uomo Mario Pedini. Egli è stato uno dei pochi uomini politici che negli anni in cui ha svolto il suo mandato, è riuscito a coniugare la sua straordinaria preparazione culturale con la concreta efficacia dell'azione politica.
Il suo nome è scritto a caratteri forti nella storia del movimento cattolico italiano, della Democrazia Cristiana e in particolare nella storia della modernizzazione del nostro Paese e della grande battaglia per la costruzione europea. Pedini vive, pensa e opera nella stagione complessa delle grandi scelte che dovevano fondare e difendere la democrazia nel nostro Paese e che dovevano creare le condizioni per un rapido e profondo processo di ammodernamento delle sue strutture sociali, produttive e istituzionali. La sua formazione universitaria, a Pavia con il prof Sciacca prima, e politica con De Gasperi poi, si inserisce in quel filone del cattolicesimo italiano e bresciano in particolare, che ha saputo prendere le distanze da quelle posizioni dicotomiche e arrendevoli nei confronti della modernità ed è riuscito ad aprire un grande dialogo con il liberalismo non dogmatico e non alternativo alla visione cristiana dell'uomo. L'autore è un cattolico liberale per cui la modernità non è la risposta ai problemi dell'uomo ma è essa stessa un problema che va affrontato rilanciando una nuova presenza dei cattolici nella società e nella politica.
Anche lui giovane universitario subì, come molti altri, il fascino dello scudocrociato come il simbolo, ripreso da Sturzo, che porta nella politica i valo-ri cristiani dando un sostegno ai valori naturali dell'uomo, altrimenti destinati ad essere travolti. Ma senza la libertà nessun valore è veramente un valore, perché essi chiedono di essere realizzati per mezzo della libertà. Questo è ciò che lo scudocrociato ha rappresentato non solo per Pedini ma per generazioni di militanti e per milioni di persone che lo hanno votato per una fiducia radicale data ad un valore, prima ancora che per i programmi e perdonando, in nome di questo valore, le insufficienze e manchevolezze degli uomini che di volta in volta si sono fatti carico di rendere presente nella politica italiana quelle ispirazioni.
Il suo essere tipicamente democratico-cristiano gli ha concesso di possedere quella particolare cultura politica che ha saputo valorizzare le autonomie locali e che era (e resta) l'espressione più significativa del modo di essere dei cattolici impegnati in politica. Pedini inoltre è tipicamente bresciano perché il legame con la sua terra gli ha trasmesso quella concretezza creativa e quella instancabile operosità che caratterizza un po' tutti i Bresciani e senza di cui non si potrebbe capire il grande sviluppo realizzato nel dopoguerra da quelle regioni che negli anni successivi sarebbero assurte a simbolo del nordItalia più dinamico e imprenditoriale. L'Istituto ACTON da me presieduto propone al lettore il diario dei quattro anni in cui Pedini fu ministro del Governo italiano. Sono la conferma del suo impegno cristiano tra cultura e azione politica illuminato anche dall'insegnamento del suo grande concittadino, il Pontefice Paolo VI, per il quale lo sviluppo non può dirsi tale se non è sviluppo della Persona umana.

Pierluigi Pollini

PUNTI DI VISTA
Questo libro è un réportage dall'interno della politica, è la cronaca quotidiana, minuta di ciò che ha fatto un ministro. Sotto la lente prestataci dallo stesso protagonista vediamo come nasce, cresce e si sviluppa un'azione di governo, una iniziativa politica. Vediamo sulla scacchiera preordinata delle relazioni, delle posizioni, dei pesi specifici come si muove una «pedina» nel gioco delle parti: i pericoli, le cautele, le attese, ma anche la determinazione, la visione strategica, il laicismo tattico, la coerenza persona / impegno / azione, il programma immediato, il modello ideale di riferimento, il rendiconto agli elettori e al Paese.
Di tutto quest'iceberg intero e compatto con il gran peso della massa sommersa, all'occhio della telecamera interessava solo la punta smagliante. Ma il mondo visto con gli occhi del cittadino-ministro, il punto di vista dalla parte dello stesso soggetto mai ci è stato dato vedere. Quel che vedemmo allora in televisione era quanto poteva comparire in vetrina. Ci si ricorda di un ministro per una volta«umano» che chiude una puntata di Acquario davanti al pianoforte, ma non una parola di quel che pur deve aver detto sul decreto-precari in discussione al Senato. Ecco dunque l'agenda di un uomo al governo, fitta di impegni, appuntamenti e scadenze.
Quella stessa persona che quelle ore ha vissuto, ci sfoglia la pagine del proprio quotidiano diario, un giorno via l'altro, raccontando del senso d'un semplice appunto, di un grande progetto legato ad un nome, di un mondo che d'improvviso s'allarga rivedendosi in foto su una barca che placida solca un fiume giù in Congo.
Dall'ininterrotto dialogo con sé e con gli amici di squadra, coi propri ideali ed affetti, si delinea il profilo di un uomo, che crede, opera e si afferma; che si forma e a sua volta modella, che attraversa e compenetra il mondo immediato, arrivando poi con una giusta parola nel ganglio sensibile che apre la mente ad intendere un nuovo scenario; plasmato a suo turno da uno schema di gioco cui mai avrebbe pensato. Come fa il rivo che limpido corre diritto alla foce, che quando si ferma s'intorbida in stagno; come ancora fa l'acqua che lambisce le pietre, che imbeve le rive e di un poco le erode portando qualcosa con sé.Noi, che in quegli anni eravamo studenti, con l'ansia del nuovo contestavamo insofferenti di tutto e di tutti, convinti d'esser nel giusto più giusto, perché nuovo e non d'altri. Maggiorenni da poco, ma già col senso d'esser padroni del mondo cui tutto perciò fosse dovuto. Senza conoscere la storia, il lavoro e il dolore. I padri rigettati in un angolo, già vecchi e decrepiti, non più al passo coi tempi che volevamo fosser nostri esclusivi.
Sospettosi e diffidenti verso la Patria e lo Stato borghese, perché sapevan di reazione, fascismo e denaro. Che cosa è rimasto di quegli anni, se non il piombo dell'amarezza, la nuvola cupa del disincanto; se non il valore autoeducativo, di crescita personale? Cos'è rimasto della passione con cui Radio Tirana infuocava gli ascoltatori usando per sigla l'Internazionale? Rivive negli animi d'oggi la compassione vera, profonda, di quando si ascoltava dalla clandestina Radio Nacional de Espana le notizie sugli ultimi «patrioti» garrotati da Franco? Breve cosa è durato quel nostro atteggiamento così assoluto, così «critico», così intollerante, così inconsapevolmente immaturo. Ma era un punto di vista.
Sull'altro piatto, nel piccolo mondo di provincia, i sindaci, i consiglieri, i segretari di sezione, gli attivisti. Un sottobosco di personaggi compiacenti e ossequiosi. Scimmiottavano sul proprio teatrino di paese lo spettacolo visto fare dai«grandi». Quella tessera che avevano in tasca significava una scelta di campo senza riserve, senza discussioni. Voleva dire far parte di un piano, voleva dire avere amici e nemici... e nomignoli.
Gregari solleciti, forse anche un poco servili, ignavi od ingenui, davano tutto al partito, e tempo e risorse, paghi di una stretta di mano, di un grazie, d'una conoscenza importante. Erano orgogliosi dell'onorevole eletto nel proprio collegio: lo sapevano smaliziato, con la battuta pronta, nessuno lo metteva nel sacco, aggirava le insidie dei giornalisti, sapeva ammiccare alle telecamere, parava le bordate dei boiardi in ermellino.
Era un altro punto di vista.
Era chic nei dibattiti citare Pasolini e Antonioni, far notte parlando di Dio, di Chagall e dell'umana incomunicabilità. Vent'anni dopo rimane forse il rammarico di non aver davvero discusso, di non aver rotto la cortina della camera stagna che divideva e tuttora incasella gli Italiani in settori, classi, circoli, ambienti e in mille diversi punti di vista. Di avere in qualche modo perso la sfida con la democrazia, nonostante tutto l'impegno e tutta la buona fede. Ma la storia, nel mentre ci ancora solidamente al presente, pur sempre ci aggetta in avanti. E insieme ne siamo gli eredi, ci legittima in quel che ora facciamo, nelle scelte che operiamo, nel «potere» che ora gestiamo. La storia è l'umile, quotidiana, storia di uomini, ci fa uomini. È il luogo dove ancora vivono i padri e gli eroi. Saperli ascoltare tempera la smania smodata d'azione incisiva nel reale, di un gesto concreto per la «città»; innova lo stereotipo di una politica asservita all'interesse, al particulare; sobilla gli animi, stanchi di un senso comune che sa di stantio, di una coscienza fin troppo tranquilla; libera dal letto di Procuste del conformismo, della demagogia, dei condizionamenti del potere e della plebe. Leggiamo invece in queste pagine di un ministro che su cinque, dorme due notti in vagon-lit, due in albergo e finalmente una a casa (Roma o Montichiari); che percorre l'Italia dall'Alpi al Lilibeo, che è ben accolto in Africa, come fosse uno di casa, è invitato nella Cina lontana a parlar di cultura; e va in Unione Sovietica per un progetto di cooperazione scientifica al più alto livello. Corre in Friuli, a Pompei, frequenta piazza Cardelli e la sezione al paese. Parla con migliaia di persone, e soprattutto le ascolta. Leggiamo di un ministro che sa conciliare il volere e il dovere, il Potere e il servizio, che parla con chiarezza e infonde ottimismo, che guarda al nuovo che può realizzare, che sa vedere il bello e i problemi, curioso di sapere di oggi e di ieri. Che sulla tastiera dei giorni, bianchi e neri, suona spesso l'Appassionata, e al momento opportuno Les Adieux. Gli occhi assorbono tutto quanto di bello ed insolito esiste all'intorno: il verde di un paesaggio africano, il bianco dei Sassi a Matera, lo smeraldo del mare, il rosso di fitti roseti. E pensa, discerne e collega, ritorna su idee, organizza i pensieri sfrondando gli orpelli, perché risalti la linea di un pensiero essenziale, di sobria ed armoniosa eleganza come un affresco di Piero, come il tempio di Malatesta o la Firenze dei Medici.
Leggiamo di un lavoro dietro le quinte per tessere una tela che il giorno dopo dev'esser da capo ripresa. Della costanza e pazienza nel durare una fatica di Sisifo che può sfumare per una manciata di voti. Della ridda incessante di voci indistinte e malevole, che san sempre come meglio si doveva operare. Di una fatica anche fisica, nel prolungar le giornate nel cuore della notte, per un nuovo decreto che all'alba dev'esser prodotto. Dei parchi minuti concessiagli affetti, dei pochi momenti privati che sembrano persino rubati. E nomi e paesi che scorron davanti come se al momento neanche esistessero, finché un giorno verrà forse il turno d'andarci. Con la franca umiltà di farsi spiegare per filo e per segno un'equazione di fisica, fin dove può giungere l'azzardo d'aver davvero compreso. E l'abbandono ispirato davanti agli affreschi giotteschi, al mare di Ulisse, a un incunabolo raro. Vedendo in essi quel che è rimasto di bello del tempo e degli uomini insigni e geniali che han fatto sì bella questa Italia che è nostra perché ci tocca nell'intimo corde invisibiliche non sapevamo d'avere; a stento poi si trattiene una lacrima alla notizia della nuova scossa a Gemona: il campanile è ora del tutto crollato.

Vittorio Volpi in quegli anni studente